La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema ha annunciato, qualche giorno fa, i vincitori del Premio per la Critica Cinematografica, sezione facente parte del Pesaro Film Festival e coordinata dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – Gruppo Emilia Romagna Marche.
Il premio è intitolato a Lino Micciché, storico del cinema italiano e critico cinematografico deceduto nel 2004. Durante la sua lunga carriera fondò il Pesaro Film Festival, fu Presidente della Biennale di Venezia e del Centro Sperimentale di Cinematografia, insegnante alla Sorbona di Parigi e all’Università di Roma Tre, dove fondò il Dipartimento di Discipline dello Spettacolo. Raccontò da regista l’ascesa e la caduta del regime fascista e fu tra i primi a portare a conoscenza del pubblico italiano varie correnti cinematografiche nate fuori dai confini nazionali, una su tutte quella del New American Cinema.
Il Premio a lui intitolato punta ad avvicinare i giovani alla critica cinematografica e ogni anno, i migliori saggi e i loro autori, vengono premiati in due categorie separate: gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado e gli studenti universitari. In quest’ultima sezione, durante l’edizione annuale del concorso, è stato premiato al secondo posto il collaboratore e amico della SDAC Andrea Borneto, con un saggio incentrato sulla rilettura cinematografica del libro “Martin Eden” di Jack London, messa in scena dal regista Pietro Marcello, e che potete trovare di seguito:
“Quale punto di vista possiamo adottare per il primo film puramente di finzione del regista?
Partiamo dal semplice fatto che il cinema di Marcello ha vissuto sempre sul margine esposto dei docu-film, coi suoi personaggi autentici dotati di un’anima lucente e penetrante. Da quando si è spinto oltre quell’argine tuffandosi nel mare pericoloso della produzione più sistemica, ovvero la fiction, l’approccio critico ha necessitato un diverso occhio nei suoi confronti e già in Bella e perduta è palese questo mutamento. Martin Eden radicalizza questo concetto accentuando quel fermento di espansione che lo pone come nuova tappa evolutiva della sua poetica. La nuova natura finzionale, pur riuscendo a conservare molte caratteristiche dei lavori precedenti, sembra dare un’aura ancora più sospesa e transitoria al materiale artistico. Con questa evoluzione si porta avanti il discorso riguardo all’essere nel mondo, si perdoni l’ardire di scomodare un altro Martin (Heidegger). Un mondo che convive col tempo e con la memoria, che sposta l’asse narrativo su una scala più ampia rispetto ad una trasposizione classica del libro di Jack London: un mondo abitato e non d’abitudine.
La sceneggiatura scritta insieme a Maurizio Braucci raccoglie abbastanza fedelmente la vicenda e i nodi cruciali del soggetto originale, diversamente da come venne fatto nel 1942 da Sidney Salkow nel film interpretato da Glenn Ford e Claire Trevor. Questa versione dà vita ad un’opera dal respiro mediterraneo e dal substrato politico-sociale che non può che essere anche esistenziale. Le immagini di repertorio, che di loro natura accarezzano la ridondanza storica, sono riposte nel loro ruolo memoriale connettivo, dove tracciano la parabola di un uomo tra gli uomini, cosicché la piccola storia possa divenire mondo e il mondo divenire storia.
Rispetto invece al suo ultimo lungometraggio non è “perduta” quell’organicità pulsante della pellicola, qui in 16 millimetri, che con i suoi colori pastosi dipinge l’immagine con sfumature vive, emancipandole dal fastidioso standardismo a cui il cinema italiano ci ha abituato. Questo cinema ha un’anima e respira insieme ai suoi interpreti. Il suo archetipico protagonista è luogo d’i(n)spirazione e soggetto d’aspirazione, di quella fame di brama borghese preludio di una coscienza politica libera e indipendente; dove la leggerezza di un sussurro si trasforma nella spasmodica invettiva. Martin Eden è anche quella scheggia sanguigna nonché scintilla anarchica in cui il socialismo è visto come attenzione alla persona, come unicum di singolare affezione nell’altro e non come pretesto populista. Non si può sostenere lo sguardo degli oppressi se non si possiede un decoro interiore e non ci sono decreti che tengano se le parole dei saccenti o presunti tali non sono altro che slogan e liste della spesa. Ci si è giocati la verità con il comodo imbarbarimento dello status quo. Lo spirito del tempo ci ricorda che la cultura è politica, non snobismo, non egoica autoaffermazione, ma principio di valore; l’impoltronimento del successo invece lo riconduce al decadentissimo piacere di piacersi e all’inevitabile sfruttamento a buon mercato delle persone. Martin Eden è ribelle ma abilmente stronzo, Marinelli gli dona un’anima che si logora, infatti è quell’intellettuale che non sei stato, è quell’artista che hai sempre amato e disprezzato, e di conseguenza è anche Napoli: città che è il cuore rarefatto della pellicola, come lo era stata Genova per La bocca del lupo. Il marinaio nel naufragio, tra i frammenti di incontri, sarà libero di abbracciare le onde del mare che lo porteranno ad affrontare l’ignoto senso dell’essere nel mondo, scomparendo verso uno stato utopico. Quelle stesse acque che l’hanno portato in terra a perdersi nel gioco dell’amore e nell’annientamento morale del successo intellettualoide, sono ora culla e dimora di un’anima perduta ma liberata.
“il capitano a terra è ricondotto a centri fissi, (…) che sono altrettanti punti di soggettivazione egoistica, mentre il mare gli presenta un’oggettività come variazione universale, solidarietà di tutte le parti, giustizia al di là degli uomini“
Pietro Marcello lascia tracce di traiettorie di ricordi come punti su mappe di rotte già percorse, dando così una durata qualitativa al racconto.
Ripesca dall’archivio i volti e le storie di passeggeri già incontrati come se il vascello-atalante del suo cinema li trasportasse ancora tra le onde tempo, omaggiandone il vagabondaggio.
Al viaggiatore Arturo de Il passaggio della linea,
a Enzo e all’angiporto genovese,
a Mary e alle donne,
ai nuovi abitanti delle grotte, agli immigrati,
al sottoproletariato,
a Pelasjan, al silenzio,
a Tommaso, a Napoli, al Bufalo,
alle baracche, ai salottini e infine ai porti,
ove si respira ancora aria di mare.”
Complimenti da tutta la SDAC, Andrea!