I 5 DELLA SDAC
Il 2020 è stato un anno tra i bui che abbia mai visto il cinema, forse il più oscuro e pericoloso dalla nascita della settima arte. La chiusura delle sale e i forti cambiamenti decisi dalle major verso il piano di distribuzione dei loro film, per non parlare delle normative dei set per girare, hanno rallentato e spaventato molto gli operatori del settore, soprattutto nei rami più indipendenti. Qualche opera però ha deciso di mantenere la distribuzione e così in un modo o nell’altro è riuscita a trovare un pubblico e a farsi vedere. Sono state scelte “solo” 5 pellicole come le migliori del 2020: A hidden life, High life, Roubaix, une lumiere, The Lighthouse, Diamanti grezzi. Le recensioni sono a cura di Andrea Borneto e Alessandro Bellagamba.
A Hidden Life (di Terrence Malick) – di A.Borneto
1943, il film tratta della vita di Franz Jägerstätter, abitante del disperso paese di Radegund, dove la campagna montanara è un mondo profondo e sensitivo come in un dipinto di Millet. È in questo ambiente che Franz insieme alla moglie lavora i campi e cresce le figlie. Malick e Widmer, eccellente direttore di fotografia di luci naturali, filmano questo legame tra lo spazio circostante e l’uomo, e grazie all’uso di ottiche grandangolari impostano il film su un flusso esistenziale di voci che entrano ed escono dal campo diegetico, formando un discorso continuo, una litania esperienziale. Come nei suoi precedenti lavori, a partire da “La sottile linea rossa“, le voci compenetrano lo scorrere delle immagini e, come un salmo, sedimentano e disvelano catarsi per lo spirito in una visione luminosa e trascendente. Questo cinema germinale è allora una preghiera, uno scavo dell’anima avvolgente come una messa di Bach, in cui gli imperativi etici ed estetici collimano nella diserzione al nazismo in ogni sua forma e sostanza. Il film di Malick richiama quel tema centrale e kierkegaardiano già presente nel film Silence di Scorsese: l’uomo religioso di fronte al silenzio di Dio e alla sua doppia natura. È un silenzio assordante di assenza? O è un silenzio trascendente di presenza? In Hidden Life anche nell’abissale terrore della situazione limite il silenzio si riempe continuamente di grazia, ed allora il vuoto della prigione diviene uno spazio r/esistente in cui è possibile elevarsi.
High Life (di Claire Denis) – di A.Borneto
Claire Denis affronta la fantascienza con un budget per il genere risibile (8 milioni) ed il suo ultimo film “High Life” si inserisce in quella corrente di viaggio esistenziale oltre i confini del conoscibile. Nell’ecologia rappresentativa fatta di sezioni temporali trovano spazio diversi conflitti intrapersonali tra le vite dei reietti ormai ai confini delle norme morali, una deriva post-sociale e chimerica. Gli esperimenti della mad doctor (Juliette Binochet) per la nascita di un bimbo nello spazio sono un’eugenetica del rifiuto che riparte dal fallimento dell’uomo: una clinica e incessante selezione naturale. Il carcere spaziale nonché laboratorio triviale di pulsioni è uno spazio darwiniano, una gabbia di randagi, dove il sopravvissuto Robert Pattison è il nuovo Samuel Conrad dell’episodio “Gente come noi” (01×25) di “Ai confini della realtà”, l’ultimo della specie, e non può non venire in mente Matheson, costretto alla solitudine di un nido claustrofobico. Il passo nell’ignoto non si esaurisce nell’infinito del nulla cosmico di un buco nero ma nel rapporto genitore-figlia, l’abbandono non è totale, e nel desiderio semplice del quotidiano una normalità è comunque impossibile, poichè il mondo conosciuto è un’onda lontana nello spazio. Quale forza continua a spingerci avanti? La perdizione è uno stato d’animo perenne, la sua fine è la nostra salvezza o il termine della condanna?
Roubaix, une lumière (di Arnaud Desplechin) – di A.Borneto
Quello che sorprende di questo neo-polar è l’impianto realistico della centrale di polizia (il film è infatti ispirato al documentario Roubaix, commissariat central ), tra piccoli e grandi crimini, evasioni familiari, giri a vuoto e cronaca nera, il detective scavato, Roschdy Zem con l’aplomb di una delle più riuscite rappresentazioni di un commissario della storia del poliziesco recente, intuisce rimanendo nel giusto spazio empatico negli interrogatori/confessioni a differenza del novello (mezzo prete) ricco di buone intenzioni. Il film ed il protagonista non hanno uno sguardo pietoso o accusatorio riguardo a quello che sembra essere l’oggetto del film: il degrado sociale di Roubaix, città natale del regista, ma bensì hanno uno sguardo interno e il più possibile distaccato di quella stessa società periferica e multirazziale. E questa narrazione sociale multi etnica è una tipicità francese, si pensi all’exploit della palma d’oro del 1995 “La haine” di Mathieu Kassovitz che è l’esempio più lampante.
Le seconde generazioni di immigrati hanno già radici profonde, e nel film di Desplechin questo non è un gancio espressivo sbandierato ma semplicemente una giacenza antropologica. Ma ancor più sorprendente è la teatralità e la ridisposizione dell’indagine in uno scavo psicologico negli interrogatori della seconda parte del film, dove le intense prove delle due sospettate (Lèa Seyodoux e Sara Forestier) mettono in moto e svelano la tenerezza agghiacciante della rappresentazione di una rimbalzante ammissione di colpa. La verità verrà fuori attraverso il ri-racconto, e il ri-azionamento fisico ed emotivo. Il giudizio morale vacilla di fronte alla miseria, e verso la fine sembra di essere dalle parti del finale tutto germiniano di “Un maledetto imbroglio”, altro capolavoro poliziesco diretto da un grande regista profondamente e ostinatamente legato al senso morale. Non si respira un’aria nuova di speranza, si rimane lì consapevoli di essere parte integrante di un mondo corrotto. Roubaix è un luogo (sinonimo di quartiere, città, paese, religione) che non appartiene a nessuno ma al quale si appartiene, e in questa geografica instabilità il commissario Yacoub Daoud è il mediatore dal passato mai pienamente disvelato, così radicato da aver capito per davvero dove si trova.
The Lighthouse (di Robert Eggers) – di A.Bellagamba
Robert Eggers torna dopo il suo esordio con il bellissimo The Vvitch, con un’opera molto più profonda ed elaborata: The Lighthouse. Probabilmente il film meno passato inosservato del 2020, poichè il pacchetto del film, cominciando dal trailer, ha attirato subito la curiosità del pubblico, non tanto per le 2 star protagoniste Willem Dafoe e Robert Pattinson, ma per il 35mm in bianco e nero con il 4:3 e l’atmosfera lugubre. Nel trailer non si è tirato indietro lo splendido profumo di espressionismo anni Venti, che non è omaggiato, ma emerso naturalmente dall’atmosfera di questo film così magico e profondo più di quanto non ci si aspetti a una prima visione. Qui c’è Welles, Bergman, Jodorowski, Laughton. Le inquadrature non mentono e il surrealismo fa da padrone, laddove la realtà del film potrebbe essere metafora delle incessanti domande e autoillusioni che il personaggio di Pattinson non si stanca di farsi. Eggers cala i due guardiani in una situazione di cameratismo, ma l’ingresso delle paranoie alla Poe, i colpi di scena alla Lovecraft, le citazioni di Prometeo, i quadri di Sascha e Böcklin, anzichè congestionare la pellicola la svolgono e completano un po’ alla volta, elevando l’opera a un complesso mondo di citazioni e metafore di un’analisi psicologica dalle 10 e più chiavi di lettura. Tecnicamente è ineccepibile e rinnova l’immaginario cinematografico illuminando, proprio come un faro, un pubblico rimasto troppo all’ombra di inquadrature piatte e accademiche.
Diamanti grezzi (di Josh e Benny Safdie) – di A.Bellagamba
Uscito a dicembre negli Stati Uniti ma in Italia a gennaio del 2020, l’ultima opera sofferta dei giovanissimi fratelli Josh e Benny Safdie, si è dimostrata un’affilata e cruda esperienza nel cuore del Diamond District di Manhattan. Incredibilmente snobbato dall’Academy, soprattutto per Sandler che regala un’interpretazione dalle emozioni davvero forti, quelle di cui lo spettatore ha bisogno, e arrivano sonanti come pallottole grazie alla sceneggiatura così fitta e concentrata, quasi spregiudicata per i vortici lessicali che fanno capolino. La narrazione del film giustamente non rallenta mai, poichè è come quella giungla del commercio di diamanti, e il pitch del film ne sottolinea la crudeltà e la freddezza, pure tra colleghi di lavoro. Ispirato a vicende vere e “quotidiane”, i registi rendono questa corsa ai soldi come un calvario, e la spiritualità ebraica non resta appesa alla parete.
Howard, Adam Sandler, è inseguito dalla telecamera a mano libera e con un magnifico montaggio serrato, in un forma quasi documentaristica. Egli non insegue la libertà ma la quotidiana sfida con la realtà che lo circonda, come il suo amico Garnett con le partite di basket. Ma la vita non è un solo sport come pensa di credere Howard, e quando sottovaluta le sfide che si è posto per sbandierare la propria identità, la vita gli ricorda che non tutti seguono le “regole del gioco”. Un film bellissimo, un sano pugno nello stomaco.