La casa di Jack di Lars von Trier
Recensione di Francesco Bianchi
Il film racconta le gesta di Jack, ingegnere con velleità da architetto, e serial killer tanto efferato quanto emozionalmente apatico. La storia copre 12 anni della sua vita e si concentra su 5 omicidi che vengono definiti incidenti, e sui suoi tentativi di costruire una casa da lui progettata. Durante questi incidenti Jack parla a un misterioso interlocutore, di nome Verge, dei suoi omicidi come di processi creativi e dei suoi cadaveri come opere d’arte. Con lui ragiona di arte, architettura, cita Blake con La tigre e l’agnello, parla di nazismo e misoginia. Manipola i morti, li deforma a suo piacimento, li fotografa per poi collezionarli in una cella frigorifera.
Verge spesso non approva le gesta di Jack e lo disillude circa le sue velleità da artista definendolo un povero psicopatico ossessivo compulsivo.
Lars Von Trier ci mostra scene, sequenze e immagini di violenza disturbanti, ci fa intuire il suo intimo legame con il personaggio di Jack, le sue terribili azioni sono gli incubi del regista o sue oscure perversioni. Verge funge da coscienza, da limite ultimo verso il baratro della follia, Verge in inglese significa limite, orlo appunto. Lo sguardo di Matt Dillon è perfetto, freddo, statico e indecifrabile. Le attrici sono molto brave, peccato che il regista non regali loro molto spazio. Tutte le donne del film sono vittime, insopportabili e stupide fino alla morte, appunto. Il premio oscar Uma Thurman ad esempio, interpreta un personaggio insistente e antipatico, e viene liquidata in dieci minuti, a colpi di cric in testa. Nel secondo incidente Jack riesce a circuire la vittima, una donna vedova che vive sola, riuscendo a entrare in casa sua con scuse veramente poco plausibili, e nonostante ciò lei ha fiducia nel suo carnefice. Von Trier se da una parte condivide con lo spettatore i suoi mostri e le sue mostruosità, dall’altra si diverte moltissimo a prenderlo in giro, a provocarlo, cerca in tutti i modi di farlo fuggire addirittura prima della fine del film e nella provocazione cerca consenso e, perché no, pubblicità. Che se ne parli, nel bene o nel male, ma che se ne parli. Non dimentichiamoci delle sue sparate su Hitler e sul nazismo al festival di Cannes del 2011, ne ricavò clamore e promozione a fiumi nonché la cacciata. In sostanza dopo la visione del film un po’ preso in giro mi ci sono sentito. Von Trier un po’ “paraculo” lo è e non fa nulla per nasconderlo.
Durante lo sviluppo della storia, tra uno scannamento e l’altro, Jack non riesce a costruire la sua casa, ogni volta la comincia e subito dopo la distrugge. Il processo creativo deve prima distruggere per poi creare. Le uccisioni di Mr. Sophistication non sono omicidi, ma tappe creative per arrivare all’opera, se necessario arrivando addirittura all’autodistruzione.
Anche qui c’è dell’autobiografico nel film, Von Trier dichiarò a più riprese di abusare di alcol e droghe per meglio arrivare dove voleva nei suoi film. Jack riuscirà solo alla fine a costruire la sua casa, utilizzando i cadaveri dei morti, il suo materiale ideale.
L’epilogo del film ci rivelerà finalmente Verge, (Bruno Ganz nella sua ultima interpretazione) che scopriremo essere il Virgilio dantesco che condurrà il nostro Jack novello Dante nei meandri infernali con tanto di veste e cappuccio rosso. Virgilio lo condurrà fino alla fine dell’inferno, dove troverà un ponte interrotto al di là del quale vi è la salvezza, ma al di sotto l’abisso infinito. Jack proverà a bypassare il ponte per trovare la via , ma inevitabilmente cadrà nel vuoto.
Lars Von Trier produce un film bipolare, dissociato, autoreferenziale ed egocentrico (all’interno del film piazza scene del suo Nymphomaniac). È ambizioso, ma pomposo, indisponente, presuntuoso. C’era veramente bisogno di scomodare Dante, Virgilio, Blake e Delacroix? Immagino già i fans e i sostenitori di Von Trier inneggiare via web, ai quattro venti, al capolavoro.