Oggi la Redazione dello SDAC Magazine è felice di presentarvi un interessante articolo, scritto con passione, dal nostro lettore Gianluca Gervasoni: una vera e propria elegia-elogio del lato più ruvido del grande attore americano, scritta da un suo vero fan e zeppa di curiosità.

Negli anni 40 del secolo scorso San Saba, Texas, non doveva essere poi molto diversa da ciò che era cent’anni prima: una tranquilla cittadina del sud degli Stati Uniti, qualche migliaio di abitanti, strade cotte dal sole e una fiorente economia di noci pecan, vanto della comunità. A dire il vero, non penso – non so se siete stati a San Saba di recente – che le cose siano tuttora molto diverse. In questi luoghi magici, dove il tempo sembra essiccare come tutto il resto, spesso si aggirano e nascono personaggi unici.

Succede ad esempio nel 1946. Lucille Marie Scott fa l’agente di polizia, poi insegna a scuola e dopo ancora è proprietaria di un salone di bellezza. Il marito, Clyde C. Jones, è un operaio nei giacimenti petroliferi, persona talmente asciutta che la C che separa il nome dal cognome non è un vero secondo nome, ma solo una lettera. I due danno alla luce  abbagliante del Lone Star State, un uomo destinato a farsi spazio nel cinema contemporaneo a suon di sguardi affilati come la selce: Tommy Lee Jones.

A guardarlo ora, difficile immaginare che sia mai stato un bambino. Quel volto che sembra un mosaico scolpito ed eroso dai venti secchi delle praterie, epidermide polverosa, aspetto austero, occhi severi e profondi in grado di incenerire la quarta parete e inchiodare alla poltrona. Jones è uno di quegli individui che ha smesso presto di essere una persona ed è diventato personaggio, non solo nel senso di emblematica icona, ma anche di interprete geloso ed esclusivo della sua esistenza.

L’infanzia è di quelle essenziali e inquadrate delle comunità rurali, improntata al culto del lavoro e del sudore. Nessuno spazio per chiacchiere futili come l’adolescenza, il giovane Tommy si sposta con la sua famiglia su e giù per il West Texas e l’estate lavora, anche nella nettezza urbana. A casa tira una brutta aria, i genitori litigano spesso e si separano due volte. Clyde ottiene un ingaggio ben pagato e parte alla volta della Libia, lui non ha nessuna voglia di spostarsi e con una borsa di studio accede alla St. Mark’s School a Dallas, un convitto maschile d’élite dove risalterà come un pesce fuor d’acqua. I suoi compagni di allora lo ricordano come un duro e pensieroso ragazzaccio, poco incline allo scherzo e attento custode di un’inaspettata sensibilità che apparirà di tanto in tanto – la sera nel suo letto scrive poesie per una ragazza, costringe gli altri ad ascoltarle mentre le legge ad alta voce, nessuno osa obiettare. Scrivere di questi anni è importante, non solo perché risalgono a questo periodo i suoi primi casuali approcci alla recitazione, ma perché qui c’è già tutto di Jones, la cifra che lo accompagnerà per tutta la vita e che poi apprezzeremo sullo schermo.

Sono questi gli anni che lo fanno conoscere anche per un’altra sua passione, quella per lo sport. La sua bravura nel football sarà la chiave che gli spalancherà le porte di Harvard, dove questo minaccioso texano e la sua mascolinità prorompente oscilleranno tra uno Shakespeare e un Brecht e le partite nella squadra del college, tra cui la celebre Harvard Yale, conosciuta come The Tie, il pareggio (29 – 29).

Fortunatamente per l’arte cinematografica, si rivelerà forse troppo gracile per una carriera professionale nel mondo del pallone ovale, quindi dopo la laurea cum laude in letteratura inglese andrà a lavorare nei teatri di New York. Di lì sino al suo trampolino di lancio, la soap opera One Life to Live, per poi proseguire la sua ascesa verso le stelle, a cui ironicamente preferirà sempre il paronimo.

Della sua filmografia completa però si può leggere in ogni dove e per altro è una carrellata di cattivi e anti-eroi comprimari che non sempre gli rendono la giustizia che merita. Più interessante è capire come questo ego così atipico si sia trascinato da un set all’altro masticando il suo malcontento e riuscendo, nonostante tutto, a lasciare la sua indelebile firma. Tutto muove dal segreto di Jones, dal suo motto, ovvero una riga di dialogo improvvisata e contenuta nel film che me l’ha fatto conoscere, Il Fuggitivo del 1993. Harrison Ford, nelle vesti del dottor Kimble, si è messo da solo in una situazione apparentemente senza uscita: da un lato il baratro di una diga alta una trentina di metri, dall’altro l’implacabile agente federale Samuel Gerard, disarmato. Kimble, a corto di opzioni, proclama la sua innocenza puntando l’arma contro Gerard. Lui, mani in alto, si avvale di tutta la nonchalance recitativa di Jones per il suo caustico I don’t care, non me ne frega niente. Nello script originale quella battuta non c’era, era un più blando that isn’t my problem.

Per uno come Jones le sfumature non sono sufficienti, così quando replica a Ford il suo disinteresse in quella scena culto noi gli crediamo. Perché a Jones non interessa davvero. Il suo non è un divismo eccentrico, non è uno di quegli alternativi dello star system che scimmiottano un finto atteggiamento distaccato, superiore a quelle facezie glamour così hollywoodiane. Lui se ne frega autenticamente dei film, della promozione, del successo, degli attori e dei registi, di quei pochi fan che lo incontrano per strada e che rimangono a fissarlo, basiti e umiliati, quando lui si allontana senza degnarli di uno sguardo e aggiungendo un’altra tacca alla sua lunga lista di autografi mai firmati. Sembra quasi inciampato nella sua carriera di attore, come se il destino fosse solo un sasso a cui la punta del suo stivale ha concesso di trovarsi nel mezzo, tra il suo mondo e il resto dell’universo.

Hollywood odia Tommy Lee Jones. Lavorarci insieme, per molti, è la cosa più difficile mai fatta. Quel dorato meccanismo, il leviatano dello showbiz, sembra averlo risputato ancora più incazzato dopo aver tentato invano di digerirlo, di assimilarlo. Quasi come la piattola di Men in Black, il cult del 1997 la cui lavorazione si ingarbugliò più volte per le liti tra Jones e Barry Sonnenfeld, il regista. Uno che sbraitava prima del ciak di aver scritto cose migliori alle elementari e l’altro che, inconsapevole del futuro, solo qualche tempo prima diceva alla moglie nel suo salotto frasi come “Grazie a Dio, finchè vivrò non lavorerò mai con quello

stronzo”. Del resto sappiamo come andò a finire, che MIB registrò un successo planetario e Sonnenfeld non ebbe più molto da dire. Se ci pensate, cosa ricordate maggiormente di quel film? Quale credete che sia la sua spina dorsale, la frizzante esuberanza di Will Smith o l’alterigia annoiata dell’Agente K, su cui anch’essa poggia? Qui c’è la magia, perché lo spettatore non riesce a non amare Jones, a non pendere dalle sue labbra. E allora l’industria si piega, lo premia – per citarne alcuni, Oscar al miglior attore non protagonista proprio per Il Fuggitivo e lo Screen Actors Guild Award per il miglior attore non protagonista in Lincoln, oltre a svariate nomination.

Gli addetti ai lavori sono sempre rimasti in qualche modo folgorati dalla sua intensità, che sembra scaturire dall’interno e non da qualche artefatto drammatico. Pochi sono in grado di dominare l’obiettivo con la stessa naturalezza, di calamitare l’attenzione e conferire spessore realistico alla scena con un solo sguardo, un micro movimento di quelle sopracciglia inquisitorie o un impercettibile contrazione dei muscoli facciali.

Ovunque vada, l’oscurità complessa di cui si ammanta, quella sfumatura malevola che è in grado di imprimere alla sua voce rude o anche alla sua rara ironia, sono destinate a fare scuola. Non importa quanto appaia raffinato ai gala nei suoi abiti fatti su misura a Savile Row, la sua figura non si è mai spogliata di quel vestito consunto da popolano della frontiera, quell’appeal antropologico e meravigliosamente autentico che potete trovare in ogni buon diavolo delle zone più estreme del globo, che sia una pompa di benzina di una strada sterrata a confine col Messico o un bar del piccolo centro abitato in Alaska. Quella gente che vive ai margini della società e che possiede una visione unica della vita, fatta di rasoiate di Occam e ostinato fatalismo, che non è difficile ritrovare anche in Jones nelle sue frequenti parentesi di introspezione su schermo. Quando cioè il movimento di camera si restringe in un suo primo piano, mentre osserva un canyon o beve un caffè, e sembra astrarsi da tutto ciò che gli accade attorno, come se stesse ripercorrendo in un respiro tutto il suo vissuto.

Per queste sue caratteristiche e radici mai recise, Jones regala le migliori soddisfazioni nel genere o nelle ambientazioni western. Non solo quando viene diretto da altri, come in Non è un paese per vecchi dei Coen, in The Missing di Ron Howard o Nella valle di Elah di Paul Higgis, ma anche e soprattutto quando si dirige da solo come in The Homesman o nel suo film ad oggi più personale, The Three Burials of Melquiedes Estrada, un low-budget che ha convinto la giuria di Cannes a premiarlo come miglior attore nel 2005. Un racconto amaro sulla redenzione e vero atto d’amore per le realtà, dure e semplici, del Texas. Quando si erge a cantastorie di quegli angoli a ridosso del Rio Grande pondera e denuncia, accudisce e condanna: l’idea di questo film ad esempio deriva dalla reale uccisione di un giovane immigrato messicano, Ezequiel Hernandez Jr., ad opera di un marine appostato in cerca di trafficanti di droga. Il soldato invocò la legittima difesa e così il caso fu chiuso, ma come puntualizzava Jones in un’intervista: “Sappiamo che se il ragazzo fosse stato ucciso a Dallas, si fosse chiamato Bobby Johnson e fosse stato bianco, allora sarebbe stata tutta un’altra storia”.

Calato in questi contesti a lui familiari, l’attore riesce a dar sfoggio di tutto il suo talento, purtroppo a discapito del suo saper essere anche sopra le righe, del suo trasformismo rimasto fermo ai tempi del fenomenale Clay Shaw di JFK – Un caso ancora aperto o l’Harvey Dent di Batman Forever – ora, fermatevi a immaginare l’incontro di un uomo così serioso con la schizofrenia di Jim Carrey e avrete un’idea di quanto infernale fu la lavorazione di quel film; non so voi, ma io non riesco a togliermi dalla mente il momento catartico in cui Jones si avvicinò all’orecchio di Carrey per sussurrargli “non posso tollerare la tua buffonaggine”. Poesia, come del resto altri racconti che lo riguardano e con cui si potrebbe riempire un libro di sola aneddotica. Un intero capitolo sarebbe appena sufficiente per raccontare di come sia diventato il terrore dei giornalisti, col suo disgusto per i quesiti personali o poco acuti, probabilmente da quando fece piangere un’intervistatrice del GQ Magazine contestando ogni sua domanda mentre rompeva delle noci con la mano o da quando lasciò la sala stampa senza proferire parola, in risposta a chi gli chiedeva se credesse o meno negli alieni.

Oggi Tommy Lee Jones ha quasi 74 anni e se è possibile gli interessa ancora meno. La sua carriera è in larga parte alle spalle, non è mai stato morbido e accondiscendente e forse questo può averla condizionata non poco, ma a lui non interessa. Ha sempre fatto ciò che riteneva opportuno e necessario, portando a casa il compenso di progetti commerciali che disprezzava e dando massima dignità a quelli in cui credeva o di cui era l’artefice. L’abbiamo visto di recente nel fantascientifico Ad Astra con Brad Pitt e sono in post-produzione due altri film a cui ha preso parte, il thriller Wander e la commedia The Comeback Trail. Ha tagliato traguardi importanti senza mai prendere parte ad un corso di recitazione, perché dubita che ci sia qualche insegnante più bravo di lui. È diventato un volto amato in Giappone da quando ha interpretato l’extraterrestre scazzato in una lunga serie di esilaranti spot per il caffè in lattina Boss della Suntory.

Racconta in giro di avere discendenza Cherokee, cosa dubbia e mai confermata, ma a lui lo si può perdonare perché col nativo americano condivide l’adorazione viscerale per il suo microcosmo e ogni forma di vita che lo popoli. D’estate passa gran parte del tempo nel suo buen retiro, un ranch a Hill Country, vicino San Saba.

Veste come un cowboy e gira a bordo della sua Ford Expedition, che guida scolando bottiglie di birra Miller Lite per andare in città o alle partite dei San Antonio Spurs. Trascorre le sue giornate lavorando col bestiame e verso sera gioca a polo nei due curati campi della sua tenuta, dove si sfidano due squadre da lui fondate e composte dalla terza moglie Dawn, sei giocatori professionisti e una scuderia di cinquanta cavalli. Dopo la partita, arrostisce carne sulle colline, ammirando il tramonto e aspettando l’imbrunire. Non un brutto modo di vivere, in fondo. E non mi stupirebbe se un giorno si congedasse da noi mortali, nella migliore delle tradizioni, cavalcando contro il sole cremisi all’orizzonte, puntando dritto a quella che i nativi Winnebago chiamavano Pista dei Canti, verso quel limbo inaccessibile tra cielo e terra di cui non gli interessa.”

Gianluca Gervasoni

Vi invitiamo a scrivere e a mandarci le vostre riflessioni, approfondimenti, se avete piacere che vengano pubblicate sullo SDAC Magazinee ricordatevi di seguirci sui canali social della SDAC (Facebook, Instagram, Youtube).