Sacha Baron Cohen riporta sul grande schermo la maschera di Borat, a distanza di quattordici anni dall’uscita del primo film: “Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan”. Questo fa presagire un aggiornamento cospicuo negli sketch comici dell’attore britannico, data la lunga assenza del personaggio kazako dalle sale cinematografiche (purtroppo attualmente chiuse: Sospensione per Nexo Digital). Accade invece qualcosa di parzialmente inaspettato. Ma andiamo per ordine.
Borat è un pseudo giornalista kazako. Proveniente da un paese dipinto come esclusivamente rurale, arretrato e ignorante. Il personaggio possiede tutte le caratteristiche che, secondo l’autore, farebbero rabbrividire ogni ipotetico buon cuore occidentale: misogino, antisemita, imbarazzante per usi e costumi. Se il primo film deve il suo successo in larga parte all’estetica del personaggio (tutti ricordano il suo costume e i suoi baffoni) e al rompere continuamente la frontiera della decenza nel parco giochi dell’occidente, nel nuovo film la dinamica in parte si ribalta.
Intanto il protagonista non può più rivelarsi esteticamente come Borat. Troppo identificabile, le persone lo fermano per strada, le vittime dei suoi scherzi lo riconoscono, vanificando ogni velleità comica. Allora si traveste. Questi travestimenti e le vicissitudini che si svolgono durante la pellicola lo portano a contatto con realtà e personaggi difficili da parodiare. Troppo estremi anche per lui. Troppo distanti da quell’immagine patinata del mondo occidentale che arriva negli stati che vedono gli U.S.A. come faro del mondo. Insomma, persone che si aspetterebbe di trovare nel suo paese ai margini del mondo civile e non dall’altro capo dell’Oceano Atlantico, nel centro della civiltà contemporanea. Allora decide di usarli come strumenti.

Una scena è emblematica di ciò. A causa del coprifuoco imposto per colpa del coronavirus, Borat si ritrova ospite nel cottage di due redneck repubblicani, sostenitori della teoria del complotto QAnon (Teoria QAnon). Questi gli raccontano che Hillary Clinton e suo marito Bill uccidono i bambini per iniettarsi il loro sangue e molte altre amenità legate a una delirante teoria che, a quanto sostengono alcuni dati elaborati da Forbes, è sostenuta dal 33% degli elettori repubblicani. La maschera satirica cade a pezzi di fronte a questi soggetti e li lascia parlare, esprimere, li stuzzica nel merito per fargli dire qualcosa di ancor più imbarazzante. Borat sono diventati loro. E Sacha Baron Cohen può dire di aver raggiunto il suo risultato. La tanto agognata inversione dei ruoli. Se in passato si limitava a una risposta da parte delle “vittime” alle provocazioni dell’attore, adesso è intrinseca nei personaggi tirati in causa.
Se da un lato troviamo un personaggio compiuto, che probabilmente ha assolto ad ogni suo scopo cinematografico e satirico, dall’altro canto abbiamo una stella nascente. In questo film assume il ruolo di spalla comica, salvo prendersi spesso la scena e l’apprezzamento dello spettatore.
Insieme a Borat c’è Tutar (interpretata dalla bravissima Maria Bakalova), la giovane e selvaggia (ma selvaggia davvero!) figlioletta, che lo ha raggiunto nascondendosi in un grosso scatolone contenente una scimmia che sarebbe dovuta andare in dono al Vice Presidente degli USA Mike Pence. Dopo aver mangiato la scimmia, si convince insieme a suo padre che debba essere lei concessa in dono al potente di turno, per poter vivere il suo sogno di abitare in una gabbia dorata, proprio come è successo (dice lei) a Melania Trump. Ovviamente la gabbia è intesa non come metafora, bensì come oggetto reale, in quanto la ragazza per educazione e tradizione nazionale, crede che tutte le donne vivano in una gabbia. Crede anche che non possano compiere alcune azioni, riservate esclusivamente agli uomini, come ad esempio guidare o masturbarsi.

Il canovaccio del film lo regge lei. È lei che ha l’evoluzione più lampante e che regala le scene migliori, tra cui il climax del film: la finta intervista a Rudy Giuliani. Ex sindaco di New York e avvocato di “McDonald Trump”. In fin dei conti la Bakalova rende la pellicola non solo un’insieme di scenette, ma un corpo unico con un finale inaspettato. Finale che suscita molti interrogativi sugli Stati Uniti e sulla loro credibilità mondiale. Soprattutto davanti agli occhi di chi fino a quel momento veniva rappresentato come il “barbaro” o lo straniero di turno.
Un film che merita di essere visto perché è il manifesto satirico del 2020. Mette in campo tutte i deliri collettivi che ci stanno accompagnando in questa assurda annata. Assurda come Borat, assurda come noi.