Playboy e burlone, uomo d’azione e spaccone, americano per metà irlandese e metà cherokee, coi baffi e senza baffi, senza generazione e senza tempo, un’icona immortale di quel sottogenere di cinema indipendente americano a cui si riserva quello spazio di proprio clima emotivo, colmo di energia e rabbia, e là, Burt Reynolds risponderà con una virilità e sobrietà sempre vincenti.
Dalle origini artistiche italiane in quanto è stato Sergio Corbucci uno dei primi registi a inaugurare Reynolds sul grande schermo con “Navajo Joe” (1966), l’attore, già in carriera, si conferma sullo schermo con il capolavoro di John Boorman “Un tranquillo weekend di paura” (1972), dove l’attore sfoggia al meglio le sue qualità attoriali e fisiche. Nello stesso anno diverte sul set di “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (*ma non avete mai osato chiedere)” di Woody Allen, forse accolto nel cast per motivi di star system ma è irrilevante dato che il suo cameo è diventato immortale.
Robert Aldrich lo eleva due anni più tardi a testimone di una delle più belle commedie amare a sfondo carcerario (con due remake): “Quella sporca ultima meta”. Il film, gran successo commerciale, apprezzato dalla critica, il tutto però molto in sordina, preparerà successivamente la strada al genere con film come “Fuga da Alcatraz” (1979) o “Fuga per la vittoria” (1981). Il riso amaro che aleggiava negli anni Settanta nelle produzioni anche di generi estremi, a fronte di un mondo che allora sembrava aver perso il controllo sugli orientamenti politici e sui fronti economici e religiosi, serviva a non privare i protagonisti e i personaggi di valori che dovevano manifestarsi e mostrarsi per appunto non essere perduti e dimenticati, e solo attori dall’aura “mistica” come Marlon Brando, Steve mcQueen, Jack Nicholson, Clint Eastwood e Burt Reynolds, sono riusciti a incarnare perfettamente.
– img via https://www.netflixlovers.it/
Con “L’ultima follia di Mel Brooks” e “La corsa più pazza d’America” e il sequel, la carriera comica (e autoironica) dell’attore prosegue senza risparmiare sul valore delle pellicole. Si trova accanto a Clint Eastwood nella divertente commedia “Per piacere… non salvarmi più la vita” di Richard Benjamin (1984), film dai toni non pretenziosi ma piacevole. Con diversi camei e apparizioni continua la sua attività d’attore: lo chiamerà l’amico regista Robert Altman per “I protagonisti” nel 1992 e lavorerà ancora in diverse commedie, apparendo come co-protagonista nel remake di “Quella sporca ultima meta” con Adam Sandler nel 2005. Sarebbe stato fantastico salutarlo un’ultima volta sullo schermo nella prossima pellicola “Once upon a time in Hollywood” di Quentin Tarantino, con l’uscita prevista per l’estate 2019.
Playboy e burlone, uomo d’azione e spaccone, americano per metà irlandese e metà cherokee, coi baffi e senza baffi, senza generazione e senza tempo, un’icona immortale di quel sottogenere di cinema indipendente americano a cui si riserva quello spazio di proprio clima emotivo, colmo di energia e rabbia, e là, Burt Reynolds risponderà con una virilità e sobrietà sempre vincenti.
Dalle origini artistiche italiane in quanto è stato Sergio Corbucci uno dei primi registi a inaugurare Reynolds sul grande schermo con “Navajo Joe” (1966), l’attore, già in carriera, si conferma sullo schermo con il capolavoro di John Boorman “Un tranquillo weekend di paura” (1972), dove l’attore sfoggia al meglio le sue qualità attoriali e fisiche. Nello stesso anno diverte sul set di “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (*ma non avete mai osato chiedere)” di Woody Allen, forse accolto nel cast per motivi di star system ma è irrilevante dato che il suo cameo è diventato immortale.
Robert Aldrich lo eleva due anni più tardi a testimone di una delle più belle commedie amare a sfondo carcerario (con due remake): “Quella sporca ultima meta”. Il film, gran successo commerciale, apprezzato dalla critica, il tutto però molto in sordina, preparerà successivamente la strada al genere con film come “Fuga da Alcatraz” (1979) o “Fuga per la vittoria” (1981). Il riso amaro che aleggiava negli anni Settanta nelle produzioni anche di generi estremi, a fronte di un mondo che allora sembrava aver perso il controllo sugli orientamenti politici e sui fronti economici e religiosi, serviva a non privare i protagonisti e i personaggi di valori che dovevano manifestarsi e mostrarsi per appunto non essere perduti e dimenticati, e solo attori dall’aura “mistica” come Marlon Brando, Steve mcQueen, Jack Nicholson, Clint Eastwood e Burt Reynolds, sono riusciti a incarnare perfettamente.
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Con “L’ultima follia di Mel Brooks” e “La corsa più pazza d’America” e il sequel, la carriera comica (e autoironica) dell’attore prosegue senza risparmiare sul valore delle pellicole. Si trova accanto a Clint Eastwood nella divertente commedia “Per piacere… non salvarmi più la vita” di Richard Benjamin (1984), film dai toni non pretenziosi ma piacevole. Con diversi camei e apparizioni continua la sua attività d’attore: lo chiamerà l’amico regista Robert Altman per “I protagonisti” nel 1992 e lavorerà ancora in diverse commedie, apparendo come co-protagonista nel remake di “Quella sporca ultima meta” con Adam Sandler nel 2005. Sarebbe stato fantastico salutarlo un’ultima volta sullo schermo nella prossima pellicola “Once upon a time in Hollywood” di Quentin Tarantino, con l’uscita prevista per l’estate 2019.