Terzo appuntamento della rubrica SDAC va in Giappone. Dopo esserci confrontati con il cinema prima di Yasujiro Ozu e poi di Akira Kurosawa negli scorsi mesi, entrambi pezzi da novanta nella cinematografia giapponese, è ora arrivato il momento di affrontare Kenji Mizoguchi. Celebriamo questo grande regista nel giorno della sua nascita raccontandolo attraverso tre dei suoi film più importanti.
A cura di Ferdinando Lercari, studente SDAC
Mizoguchi è stato uno dei protagonisti del cinema nipponico tra gli anni venti e gli anni cinquanta. È oggi considerato un anticipatore, da un punto di vista stilistico, del cinema moderno. La sua raffinata ed elegante messa in scena è nota per gli elaborati piani sequenza e long take – con una tecnica all’avanguardia portata a compimento nel noto film Storia dell’ultimo crisantemo – e per l’utilizzo della profondità di campo con funzione narrativa. Sul set era un assiduo perfezionista. Ricercava l’accuratezza storica, la coerenza degli ambienti e degli oggetti di scena.
Chiedeva ai suoi attori di rifare le stesse azioni fino all’esaurimento, passando per una lunga fase di preparazione. Voleva ottenere una recitazione sottile, contenuta e naturale. Negli anni cinquanta, con la vittoria di Rashomon di Kurosawa a Venezia, anche Mizoguchi ottenne grandi riconoscimenti in occidente. Si aggiudicò ben due leoni d’argento per I racconti della luna pallida d’agosto e L’intendente Sansho. Fu proprio in questo periodo che i critici dei “Cahiers du cinéma” e i grandi registi della Nouvelle Vague rilevarono gli aspetti avanguardistici nel cinema di Mizoguchi, che infatti preferivano nettamente a Kurosawa.
“Puoi confrontare solo ciò che è paragonabile e punta abbastanza in alto. Mizoguchi soltanto impone la sensazione di un mondo e di un linguaggio unici, risponde solo a se stesso. Sembra sia l’unico regista giapponese completamente giapponese eppure, allo stesso tempo, è l’unico che raggiunge una vera universalità, quella di un individuo”.
jacques Rivette, a proposito del confronto con Kurosawa
Nonostante le numerose testimonianze che descrivono il cinema di Mizoguchi come sperimentale, variegato e innovativo sin dagli anni venti – pare che in quel decennio abbia diretto circa una settantina di film, oggi perduti – nella sua filmografia da un certo punto in poi il tema dominante è quello della condizione della donna. Egli stesso considerava il 1936, data di uscita di Elegia di Osaka e Le sorelle del Gion, il vero inizio del suo cinema. A partire da radici strettamente giapponesi, il ritratto che ne fa il regista è di portata tragica universale.
Le sue opere ruotano intorno a figure maschili deboli, non virili, spesso ridicolizzate e negative, contrapposte e personaggi femminili forti e disposti al sacrificio. Sebbene questa particolare attenzione al mondo femminile sia nata, come viene detto nel documentario di Kaneto Shindō, da ‘esigenze produttive‘ – poiché il suo collega e amico Minoru Murata (Anime sulla strada, 1926) realizzava unicamente film di uomini e la casa di produzione gli chiese di girare film sulle donne per non avere due registi troppo simili – la ‘vocazione’ di Mizoguchi ha radici ben più profonde.
Sin dall’infanzia ebbe un’adorazione particolare per la madre e per la sorella, contrapposta ad una repulsione per la figura autoritaria del padre che si acuì ulteriormente quando quest’ultimo vendette la sorella come geisha ad una casa da tè di Nihonbashi – evento che ritroviamo trasposto in alcuni suoi film come L’intendente Sansho. Sua moglie, anni dopo il matrimonio, a seguito di una grave crisi nervosa venne chiusa in un manicomio e Mizoguchi si sentirà profondamente in colpa per tutta la vita per la malattia mentale della consorte di cui si riteneva responsabile.
Nel corso degli anni inoltre ha avuto numerose frequentazioni con prostitute e una di queste lo ha ferito alla schiena durante un litigio. Evento che lo ha segnato particolarmente, tanto che sappiamo fosse solito dire che non si è in grado di capire le donne se una di loro non ti ha pugnalato almeno una volta. Se da una parte è vero che le eroine di Mizoguchi risultano sempre personaggi dignitosi e combattivi, nonostante le avversità, non manca quel crudo realismo che le porta a soccombere alle circostanze sfavorevoli, alla realtà insormontabile.
Elegia di Osaka
Credo sia essenziale partire con ‘Naniwa erejii’ (1936) se non altro per l’importanza che vi attribuiva lo stesso Mizoguchi. Si tratta del film che numerosi critici identificano come origine e modello di tutta una serie di elementi stilistici e narrativi che caratterizzeranno la cinematografica del regista fino alla sua morte. Segna inoltre l’inizio della collaborazione con lo sceneggiatore Yoshikata Yoda, che prenderà parte a molte delle pellicole più importanti di Mizoguchi, tra cui le prossime di cui andremo a parlare. Racconta la storia di Ayako, giovane dipendente in una ditta farmaceutica, che per pagare i debiti del padre, minacciato di arresto, accetta di diventare l’amante del suo datore di lavoro, nonostante sia allo stesso tempo innamorata di un collega, Nishimura.
La protagonista parte da una condizione di oppressione e desiderio intimo di ribellione accompagnati, come prevedeva la cultura giapponese, dalla devozione verso il padre e il fratello – che aiuterà a pagarsi gli studi – ma nel corso degli eventi subisce una radicale metamorfosi. Il film si pone in maniera evidente in una posizione ‘solidale’, di vicinanza all’universo femminile pur senza eccedere nel melodramma e mantenendo una solida intenzionalità descrittiva di una realtà sociale ben precisa, contraddittoria, ingiusta, fondata sulle apparenze e sulla disparità. Ayako tenta in tutti i modi di resistere alle critiche e ai giudizi dei suoi indegni familiari e degli uomini che la circondano, che la biasimano continuamente per le sue azioni, sebbene siano i primi ad averle incoraggiate e talvolta organizzate per fini personali.
Si ritrova dunque intrappolata in una rete in cui qualsiasi azione, seppur mossa da buone intenzioni, non fa altro che avvicinarla alla conclusione inevitabile. Nel finale, allontanata e isolata a causa della sua reputazione ormai macchiata, nelle movenze e nell’aspetto – emblematica la sigaretta – richiama la cosiddetta “moga” (versione contratta di “modern girl”), ovvero la ragazza giapponese degli anni venti e trenta “occidentalizzata”, in una certa misura corrispondente alle “flappers” americane. Le moga non godevano di una buona reputazione agli occhi dei giapponesi, che vedevano in loro un esempio negativo di influenza americana. Le troviamo spesso, ad esempio, nei film di Ozu – sotto una leggera patina parodistica che si dissolve nel corso degli anni – contrapposte alle ‘ragazze tradizionali’ in kimono, dalla gestualità contenuta e ligie ai vecchi valori.
Nell’Elegia di Osaka non vi è un’accezione morale nella metamorfosi in sé, che da un lato la libera dalle catene ma dall’altro la condanna alla solitudine; assistiamo infatti ad una rappresentazione minuziosa di una realtà che rivela da sola i propri problemi: quella di Ayako è una condizione sintomatica che allude a un problema viscerale di cui lo spettatore, mediato dallo sguardo in chiusura della protagonista, è chiamato a prendere coscienza.
Vita di O-Haru, donna galante
Film in concorso al festival di Venezia del 1952, che apre la stagione dei grandi capolavori di Mizoguchi. Siamo nel XVII secolo, la storia si apre in un tempio con Oharu, ormai vecchia, che attraverso un lungo flashback ripercorre le fasi più importanti della sua vita. Una lenta ma inesorabile discesa degradante e svilente che la conduce da giovane e bella ragazza di origine nobile, esiliata con la famiglia a causa di una relazione amorosa socialmente impossibile, all’essere la concubina di un signore locale; per poi essere venduta – ancora una volta torna il tema – ad una casa di geishe fino all’essere costretta a prostituirsi per strada per mantenersi.
Sebbene il film presenti una ricercatezza invidiabile nella precisione storica di ambienti, vestiti, atmosfere, ciò che riesce a catturare qui Mizoguchi è l’essenzialità, fuori dalle epoche, del dramma femminile. Scrive Maria Roberta Novielli:
“Oharu non è solo una donna, ma è la donna, l’incarnazione di una metafora, la solista di un coro, la scrittura di una lunga pagina di storia”.
Ogni capitolo della sua vita sembra condurre verso un unico, avverso e inevitabile destino, trainato dalle convenzioni di una società patriarcale, dai pregiudizi, da un passato “macchiato” che la rincorre ovunque vada. Un padre che, esattamente come avveniva nell’Elegia di Osaka – ma non è l’unico parallelismo – vede la figlia come oggetto da cui trarre profitto, come merce di scambio, rendendo la distanza tra le due protagoniste soltanto temporale.
La parabola drammatica della protagonista è una delle più articolate e complete tracciate da Mizoguchi nel corso della sua carriera. Attraverso la ripetizione ossessiva delle stesse logiche, la pellicola delinea una circolarità narrativa che si configura in maniera silenziosa come una spirale discendente: ogni barlume di speranza per Oharu si rivela una tragedia peggiore della precedente e il declino è compiuto quando anche la bellezza, infine, sfiorisce. Cinema Mizoguchi
La pellicola fece innamorare Jacques Rivette ed è uno dei progetti a cui lo stesso Mizoguchi era maggiormente legato. I numerosi piani sequenza tipici del regista esaltano la recitazione di Kinuyo Tanaka, probabilmente nel suo ruolo più difficile, ma crearono diversi problemi durante le riprese. Poiché si svolgevano vicino ad una stazione ferroviaria, ogni volta che passava un treno dovevano fermarsi e ricominciare da capo. L’esigente Mizoguchi non era ovviamente disposto a venire a compromessi! Cinema Mizoguchi
I racconti della luna pallida d’agosto
“Ugetsu Monogatari è il capolavoro di Mizoguchi, e uno che lo classifica allo stesso livello di Griffith, Eisenstein e Renoir”.
Jean-Luc Godard
Ritenuto da molti grandi cineasti, come Scorsese e Tarkovskij, la quintessenza dell’eleganza formale e della profondità tematica di Mizoguchi, è il primo leone d’argento del regista. Si tratta di un film da un certo punto di vista molto diverso da quelli di cui abbiamo parlato, non solo perché ambientato alla fine del XVI secolo, ma per la presenza del sovrannaturale. Tratto da due diversi racconti di Ueda Akinari, narra la storia di due fratelli vasai, Genjuro e Tobei, che, insoddisfatti della loro vita, mossi da un forte desiderio di ricchezza e gloria, si lasciano alle spalle il loro villaggio inseguendo l’ambizione.
Tobei, con il ricavato dalla vendita delle ceramiche, compra un’armatura da samurai e, con un colpo di fortuna, intraprende la carriera militare, abbandonando la moglie; Genjuro, ammaliato da una giovane nobildonna, rimane a vivere nel suo palazzo, dimenticandosi della consorte e perfino del figlio. Pur non allontanandosi dal realismo che contraddistingue il cinema di Mizoguchi, Ugetsu monogatari si muove su due dimensioni di realtà antinomiche ma coesistenti che si intersecano tra loro: reale e fantastico, concreto e astratto. Tutta la pellicola è un agone di dualismi e contrari, concettuali ed estetici. Si alternano tra le due storie parallele scenari squisitamente sintetici e astratti, che suggeriscono, insieme all’accompagnamento musicale, l’ingresso nel mondo sovrannaturale e scene di vita mondana che, in alcuni frangenti, tendono al tragicomico.
Il racconto è molto più rarefatto di quanto non lo fosse O-haru, e i personaggi, descritti unicamente nei tratti essenziali, appaiono come singoli elementi in grado di acquisire davvero significato solo osservando il quadro complessivo.
Il film si presta a numerose letture, tuttavia permane la consueta rappresentazione critica degli effetti della società patriarcale, di cui l’uomo stesso è vittima di riflesso. Anche in questo caso le figure femminili dell’opera, costrette ad una posizione di sottomissione in balia delle pulsioni degli uomini che le circondano, condividono una condizione di solitudine, abbandono e annullamento in un mondo ostile.
L’autore del testo ha selezionato, assieme alla redazione di SDAC Magazine, alcuni articoli utili per approfondire la figura e il cinema di Kenji Mizoguchi. Se decidi di acquistarli ci darai la possibilità di continuare a scrivere articoli come questo. Non sei tenuto ad acquistare i prodotti da noi selezionati, è sufficiente tu faccia accesso alla piattaforma di e-commerce cliccando sulle immagini per acquistare ciò che preferisci. Grazie.
Terzo appuntamento della rubrica SDAC va in Giappone. Dopo esserci confrontati con il cinema prima di Yasujiro Ozu e poi di Akira Kurosawa negli scorsi mesi, entrambi pezzi da novanta nella cinematografia giapponese, è ora arrivato il momento di affrontare Kenji Mizoguchi. Celebriamo questo grande regista nel giorno della sua nascita raccontandolo attraverso tre dei suoi film più importanti.
A cura di Ferdinando Lercari, studente SDAC
Mizoguchi è stato uno dei protagonisti del cinema nipponico tra gli anni venti e gli anni cinquanta. È oggi considerato un anticipatore, da un punto di vista stilistico, del cinema moderno. La sua raffinata ed elegante messa in scena è nota per gli elaborati piani sequenza e long take – con una tecnica all’avanguardia portata a compimento nel noto film Storia dell’ultimo crisantemo – e per l’utilizzo della profondità di campo con funzione narrativa. Sul set era un assiduo perfezionista. Ricercava l’accuratezza storica, la coerenza degli ambienti e degli oggetti di scena.
Chiedeva ai suoi attori di rifare le stesse azioni fino all’esaurimento, passando per una lunga fase di preparazione. Voleva ottenere una recitazione sottile, contenuta e naturale. Negli anni cinquanta, con la vittoria di Rashomon di Kurosawa a Venezia, anche Mizoguchi ottenne grandi riconoscimenti in occidente. Si aggiudicò ben due leoni d’argento per I racconti della luna pallida d’agosto e L’intendente Sansho. Fu proprio in questo periodo che i critici dei “Cahiers du cinéma” e i grandi registi della Nouvelle Vague rilevarono gli aspetti avanguardistici nel cinema di Mizoguchi, che infatti preferivano nettamente a Kurosawa.
“Puoi confrontare solo ciò che è paragonabile e punta abbastanza in alto. Mizoguchi soltanto impone la sensazione di un mondo e di un linguaggio unici, risponde solo a se stesso. Sembra sia l’unico regista giapponese completamente giapponese eppure, allo stesso tempo, è l’unico che raggiunge una vera universalità, quella di un individuo”.
jacques Rivette, a proposito del confronto con Kurosawa
Nonostante le numerose testimonianze che descrivono il cinema di Mizoguchi come sperimentale, variegato e innovativo sin dagli anni venti – pare che in quel decennio abbia diretto circa una settantina di film, oggi perduti – nella sua filmografia da un certo punto in poi il tema dominante è quello della condizione della donna. Egli stesso considerava il 1936, data di uscita di Elegia di Osaka e Le sorelle del Gion, il vero inizio del suo cinema. A partire da radici strettamente giapponesi, il ritratto che ne fa il regista è di portata tragica universale.
Le sue opere ruotano intorno a figure maschili deboli, non virili, spesso ridicolizzate e negative, contrapposte e personaggi femminili forti e disposti al sacrificio. Sebbene questa particolare attenzione al mondo femminile sia nata, come viene detto nel documentario di Kaneto Shindō, da ‘esigenze produttive‘ – poiché il suo collega e amico Minoru Murata (Anime sulla strada, 1926) realizzava unicamente film di uomini e la casa di produzione gli chiese di girare film sulle donne per non avere due registi troppo simili – la ‘vocazione’ di Mizoguchi ha radici ben più profonde.
Sin dall’infanzia ebbe un’adorazione particolare per la madre e per la sorella, contrapposta ad una repulsione per la figura autoritaria del padre che si acuì ulteriormente quando quest’ultimo vendette la sorella come geisha ad una casa da tè di Nihonbashi – evento che ritroviamo trasposto in alcuni suoi film come L’intendente Sansho. Sua moglie, anni dopo il matrimonio, a seguito di una grave crisi nervosa venne chiusa in un manicomio e Mizoguchi si sentirà profondamente in colpa per tutta la vita per la malattia mentale della consorte di cui si riteneva responsabile.
Nel corso degli anni inoltre ha avuto numerose frequentazioni con prostitute e una di queste lo ha ferito alla schiena durante un litigio. Evento che lo ha segnato particolarmente, tanto che sappiamo fosse solito dire che non si è in grado di capire le donne se una di loro non ti ha pugnalato almeno una volta. Se da una parte è vero che le eroine di Mizoguchi risultano sempre personaggi dignitosi e combattivi, nonostante le avversità, non manca quel crudo realismo che le porta a soccombere alle circostanze sfavorevoli, alla realtà insormontabile.
Elegia di Osaka
Credo sia essenziale partire con ‘Naniwa erejii’ (1936) se non altro per l’importanza che vi attribuiva lo stesso Mizoguchi. Si tratta del film che numerosi critici identificano come origine e modello di tutta una serie di elementi stilistici e narrativi che caratterizzeranno la cinematografica del regista fino alla sua morte. Segna inoltre l’inizio della collaborazione con lo sceneggiatore Yoshikata Yoda, che prenderà parte a molte delle pellicole più importanti di Mizoguchi, tra cui le prossime di cui andremo a parlare. Racconta la storia di Ayako, giovane dipendente in una ditta farmaceutica, che per pagare i debiti del padre, minacciato di arresto, accetta di diventare l’amante del suo datore di lavoro, nonostante sia allo stesso tempo innamorata di un collega, Nishimura.
La protagonista parte da una condizione di oppressione e desiderio intimo di ribellione accompagnati, come prevedeva la cultura giapponese, dalla devozione verso il padre e il fratello – che aiuterà a pagarsi gli studi – ma nel corso degli eventi subisce una radicale metamorfosi. Il film si pone in maniera evidente in una posizione ‘solidale’, di vicinanza all’universo femminile pur senza eccedere nel melodramma e mantenendo una solida intenzionalità descrittiva di una realtà sociale ben precisa, contraddittoria, ingiusta, fondata sulle apparenze e sulla disparità. Ayako tenta in tutti i modi di resistere alle critiche e ai giudizi dei suoi indegni familiari e degli uomini che la circondano, che la biasimano continuamente per le sue azioni, sebbene siano i primi ad averle incoraggiate e talvolta organizzate per fini personali.
Si ritrova dunque intrappolata in una rete in cui qualsiasi azione, seppur mossa da buone intenzioni, non fa altro che avvicinarla alla conclusione inevitabile. Nel finale, allontanata e isolata a causa della sua reputazione ormai macchiata, nelle movenze e nell’aspetto – emblematica la sigaretta – richiama la cosiddetta “moga” (versione contratta di “modern girl”), ovvero la ragazza giapponese degli anni venti e trenta “occidentalizzata”, in una certa misura corrispondente alle “flappers” americane. Le moga non godevano di una buona reputazione agli occhi dei giapponesi, che vedevano in loro un esempio negativo di influenza americana. Le troviamo spesso, ad esempio, nei film di Ozu – sotto una leggera patina parodistica che si dissolve nel corso degli anni – contrapposte alle ‘ragazze tradizionali’ in kimono, dalla gestualità contenuta e ligie ai vecchi valori.
Nell’Elegia di Osaka non vi è un’accezione morale nella metamorfosi in sé, che da un lato la libera dalle catene ma dall’altro la condanna alla solitudine; assistiamo infatti ad una rappresentazione minuziosa di una realtà che rivela da sola i propri problemi: quella di Ayako è una condizione sintomatica che allude a un problema viscerale di cui lo spettatore, mediato dallo sguardo in chiusura della protagonista, è chiamato a prendere coscienza.
Vita di O-Haru, donna galante
Film in concorso al festival di Venezia del 1952, che apre la stagione dei grandi capolavori di Mizoguchi. Siamo nel XVII secolo, la storia si apre in un tempio con Oharu, ormai vecchia, che attraverso un lungo flashback ripercorre le fasi più importanti della sua vita. Una lenta ma inesorabile discesa degradante e svilente che la conduce da giovane e bella ragazza di origine nobile, esiliata con la famiglia a causa di una relazione amorosa socialmente impossibile, all’essere la concubina di un signore locale; per poi essere venduta – ancora una volta torna il tema – ad una casa di geishe fino all’essere costretta a prostituirsi per strada per mantenersi.
Sebbene il film presenti una ricercatezza invidiabile nella precisione storica di ambienti, vestiti, atmosfere, ciò che riesce a catturare qui Mizoguchi è l’essenzialità, fuori dalle epoche, del dramma femminile. Scrive Maria Roberta Novielli:
“Oharu non è solo una donna, ma è la donna, l’incarnazione di una metafora, la solista di un coro, la scrittura di una lunga pagina di storia”.
Ogni capitolo della sua vita sembra condurre verso un unico, avverso e inevitabile destino, trainato dalle convenzioni di una società patriarcale, dai pregiudizi, da un passato “macchiato” che la rincorre ovunque vada. Un padre che, esattamente come avveniva nell’Elegia di Osaka – ma non è l’unico parallelismo – vede la figlia come oggetto da cui trarre profitto, come merce di scambio, rendendo la distanza tra le due protagoniste soltanto temporale.
La parabola drammatica della protagonista è una delle più articolate e complete tracciate da Mizoguchi nel corso della sua carriera. Attraverso la ripetizione ossessiva delle stesse logiche, la pellicola delinea una circolarità narrativa che si configura in maniera silenziosa come una spirale discendente: ogni barlume di speranza per Oharu si rivela una tragedia peggiore della precedente e il declino è compiuto quando anche la bellezza, infine, sfiorisce. Cinema Mizoguchi
La pellicola fece innamorare Jacques Rivette ed è uno dei progetti a cui lo stesso Mizoguchi era maggiormente legato. I numerosi piani sequenza tipici del regista esaltano la recitazione di Kinuyo Tanaka, probabilmente nel suo ruolo più difficile, ma crearono diversi problemi durante le riprese. Poiché si svolgevano vicino ad una stazione ferroviaria, ogni volta che passava un treno dovevano fermarsi e ricominciare da capo. L’esigente Mizoguchi non era ovviamente disposto a venire a compromessi! Cinema Mizoguchi
I racconti della luna pallida d’agosto
“Ugetsu Monogatari è il capolavoro di Mizoguchi, e uno che lo classifica allo stesso livello di Griffith, Eisenstein e Renoir”.
Jean-Luc Godard
Ritenuto da molti grandi cineasti, come Scorsese e Tarkovskij, la quintessenza dell’eleganza formale e della profondità tematica di Mizoguchi, è il primo leone d’argento del regista. Si tratta di un film da un certo punto di vista molto diverso da quelli di cui abbiamo parlato, non solo perché ambientato alla fine del XVI secolo, ma per la presenza del sovrannaturale. Tratto da due diversi racconti di Ueda Akinari, narra la storia di due fratelli vasai, Genjuro e Tobei, che, insoddisfatti della loro vita, mossi da un forte desiderio di ricchezza e gloria, si lasciano alle spalle il loro villaggio inseguendo l’ambizione.
Tobei, con il ricavato dalla vendita delle ceramiche, compra un’armatura da samurai e, con un colpo di fortuna, intraprende la carriera militare, abbandonando la moglie; Genjuro, ammaliato da una giovane nobildonna, rimane a vivere nel suo palazzo, dimenticandosi della consorte e perfino del figlio. Pur non allontanandosi dal realismo che contraddistingue il cinema di Mizoguchi, Ugetsu monogatari si muove su due dimensioni di realtà antinomiche ma coesistenti che si intersecano tra loro: reale e fantastico, concreto e astratto. Tutta la pellicola è un agone di dualismi e contrari, concettuali ed estetici. Si alternano tra le due storie parallele scenari squisitamente sintetici e astratti, che suggeriscono, insieme all’accompagnamento musicale, l’ingresso nel mondo sovrannaturale e scene di vita mondana che, in alcuni frangenti, tendono al tragicomico.
Il racconto è molto più rarefatto di quanto non lo fosse O-haru, e i personaggi, descritti unicamente nei tratti essenziali, appaiono come singoli elementi in grado di acquisire davvero significato solo osservando il quadro complessivo.
Il film si presta a numerose letture, tuttavia permane la consueta rappresentazione critica degli effetti della società patriarcale, di cui l’uomo stesso è vittima di riflesso. Anche in questo caso le figure femminili dell’opera, costrette ad una posizione di sottomissione in balia delle pulsioni degli uomini che le circondano, condividono una condizione di solitudine, abbandono e annullamento in un mondo ostile.
L’autore del testo ha selezionato, assieme alla redazione di SDAC Magazine, alcuni articoli utili per approfondire la figura e il cinema di Kenji Mizoguchi. Se decidi di acquistarli ci darai la possibilità di continuare a scrivere articoli come questo. Non sei tenuto ad acquistare i prodotti da noi selezionati, è sufficiente tu faccia accesso alla piattaforma di e-commerce cliccando sulle immagini per acquistare ciò che preferisci. Grazie.