Roma, 2018. Una mattina qualunque scoppia un’epidemia che in poche ore avvolge l’intera città. Le persone contagiate si comportano come zombie e si lanciano all’attacco di chi è ancora sano, per cercare di morderlo e trasformarlo a sua volta.
Il tutto è raccontato con gli occhi di Claudio Verona (Alessandro Roja), un giovane imprenditore, arrogante e viscido, che si trova rinchiuso nell’ascensore del palazzo dove lavora e vi resterà rinchiuso fino a quasi la fine del film.
Il regista Daniele Misischia mette in scena un survivor che come pacchetto è ben confezionato, seppur il budget limitato ma che si nota più nelle inquadrature finali con i campi lunghi di Roma che per il resto del film. La fotografia è ben curata e il montaggio, insieme alle riprese, non hanno nulla da invidiare a film come Buried – sepolto vivo o l’orrendo (a mio parere) Paradise Beach, che sul piano tecnico è comunque indiscutibile.
La storia e la sinossi del film sono comunque incredibili o comunque molto interessanti perché il regista decide di non spiegare quasi nulla ma di isolare volutamente il protagonista, giocando così con le riprese e la profondità di campo. Di Roma, dei colleghi, dell’ambiente dove lavora vediamo e sappiamo pochissimo ed è giusto così: al protagonista interessano solo i suoi contratti e il suo ego, e il mcguffin funziona da subito. Una volta chiuso dentro l’ascensore per un guasto tecnico al generatore principale non potrà venire a sapere nulla se non dal cellulare e dalle telefonate alla segretaria e alla moglie.
https://images.everyeye.it
Misischia non tralascia nulla al caso e si prende addirittura un’ora e 45 per soffermarsi non tanto sugli infetti che cercano in tutti i modi di agguantare il protagonista, ma è proprio quest’ultimo che il regista vuole mostrare al pubblico. Un protagonista che non compie il solito percorso da egoista e poi redento, bensì è altalenante. Si mostra al pubblico quanto l’essere umano possa essere volubile, debole, insicuro e opportunista nelle scelte e nei pensieri. All’inizio il protagonista ha una sua “forma”, un carattere preciso e dal giusto spessore, quando irrompe la paura, si redime, si scusa con la moglie, si pente dei suoi difetti, vizi. Poi il colpo di scena e il messaggio principale del film: quando Claudio Verona è limitato allo spazio dell’ascensore, è al sicuro ma non può uscire e colto da un impulso di compassione, non ha il coraggio di uccidere gli infetti. Poi, costretto dagli eventi, cerca di sopravvivere, ma quando esce dall’ascensore c’è questa scena prefinale che come una lama alla stomaco, gela lo spettatore e qui si chiude quel cerchio di violenza e ribrezzo che dall’inizio ci dobbiamo portare dietro, in quanto il pubblico non può prendere posizione ma solo osservare ciò che lo circonda e appunto… sopravvivere.
Il contorno del film è stupefacente, un film davvero all’italiana e qui Misischia fa respirare aria di Lucio Fulci e Mario Bava che erano trent’anni che mancava dalle sale.
Abbiamo di fronte una Roma caotica, sporca, rovinata, dove pure i tecnici della manutenzione sono descritti da un giusto e velato tocco di cattiveria e risentimento. Finalmente un prodotto nostrano, che non spicca di originalità narrativa ma rispolvera quel linguaggio artigianale che mostrando poco fa pensare tanto. Il protagonista e gli infetti sono la metafora di un Paese dove i cittadini si sono isolati così tanto che quando sono costretti a privarsi delle loro abitudini quotidiane, letteralmente, si trasformano. Qui il regista lascia il suo messaggio, presentando la gente comune, bisognosa di aggredire il prossimo, ricordando che nessun infetto è un assassino, bensì si limita a mordere e contagiare, portando così tutti alla stessa “categoria”, creando una sorta di classe sociale paritaria.
È il protagonista a descrivere e incarnare una società individualista, corrotta, sporca e isolata. Il film è uno dei prodotti di genere più interessanti degli ultimi anni e anche se è stato prodotto da RaiCinema e dai Manetti bros e distribuito da 01 Distribution, ha avuto un budget veramente limitato, sfruttato fino all’ultimo euro. Il film è supportato da un soggetto e da una regia seria, che non strizza mai l’occhio al cinema americano né a quello più commerciale. La delusione più grossa è quella nel leggere critiche che invece di esaltare un prodotto artigianale come questo lo denigrano e lo ignorano. Così facendo si nega ai nuovi registi di osare e credere in un cinema nostrano, che ha davvero qualcosa da dire, che pareva dimenticato e che con veramente poco riesce a dare un linguaggio internazionale e un contenuto autoriale. Un film così non merita di fare flop al botteghino.
di Alessandro Bellagamba
Roma, 2018. Una mattina qualunque scoppia un’epidemia che in poche ore avvolge l’intera città. Le persone contagiate si comportano come zombie e si lanciano all’attacco di chi è ancora sano, per cercare di morderlo e trasformarlo a sua volta.
Il tutto è raccontato con gli occhi di Claudio Verona (Alessandro Roja), un giovane imprenditore, arrogante e viscido, che si trova rinchiuso nell’ascensore del palazzo dove lavora e vi resterà rinchiuso fino a quasi la fine del film.
Il regista Daniele Misischia mette in scena un survivor che come pacchetto è ben confezionato, seppur il budget limitato ma che si nota più nelle inquadrature finali con i campi lunghi di Roma che per il resto del film. La fotografia è ben curata e il montaggio, insieme alle riprese, non hanno nulla da invidiare a film come Buried – sepolto vivo o l’orrendo (a mio parere) Paradise Beach, che sul piano tecnico è comunque indiscutibile.
La storia e la sinossi del film sono comunque incredibili o comunque molto interessanti perché il regista decide di non spiegare quasi nulla ma di isolare volutamente il protagonista, giocando così con le riprese e la profondità di campo. Di Roma, dei colleghi, dell’ambiente dove lavora vediamo e sappiamo pochissimo ed è giusto così: al protagonista interessano solo i suoi contratti e il suo ego, e il mcguffin funziona da subito. Una volta chiuso dentro l’ascensore per un guasto tecnico al generatore principale non potrà venire a sapere nulla se non dal cellulare e dalle telefonate alla segretaria e alla moglie.
https://images.everyeye.it
Misischia non tralascia nulla al caso e si prende addirittura un’ora e 45 per soffermarsi non tanto sugli infetti che cercano in tutti i modi di agguantare il protagonista, ma è proprio quest’ultimo che il regista vuole mostrare al pubblico. Un protagonista che non compie il solito percorso da egoista e poi redento, bensì è altalenante. Si mostra al pubblico quanto l’essere umano possa essere volubile, debole, insicuro e opportunista nelle scelte e nei pensieri. All’inizio il protagonista ha una sua “forma”, un carattere preciso e dal giusto spessore, quando irrompe la paura, si redime, si scusa con la moglie, si pente dei suoi difetti, vizi. Poi il colpo di scena e il messaggio principale del film: quando Claudio Verona è limitato allo spazio dell’ascensore, è al sicuro ma non può uscire e colto da un impulso di compassione, non ha il coraggio di uccidere gli infetti. Poi, costretto dagli eventi, cerca di sopravvivere, ma quando esce dall’ascensore c’è questa scena prefinale che come una lama alla stomaco, gela lo spettatore e qui si chiude quel cerchio di violenza e ribrezzo che dall’inizio ci dobbiamo portare dietro, in quanto il pubblico non può prendere posizione ma solo osservare ciò che lo circonda e appunto… sopravvivere.
Il contorno del film è stupefacente, un film davvero all’italiana e qui Misischia fa respirare aria di Lucio Fulci e Mario Bava che erano trent’anni che mancava dalle sale.
Abbiamo di fronte una Roma caotica, sporca, rovinata, dove pure i tecnici della manutenzione sono descritti da un giusto e velato tocco di cattiveria e risentimento. Finalmente un prodotto nostrano, che non spicca di originalità narrativa ma rispolvera quel linguaggio artigianale che mostrando poco fa pensare tanto. Il protagonista e gli infetti sono la metafora di un Paese dove i cittadini si sono isolati così tanto che quando sono costretti a privarsi delle loro abitudini quotidiane, letteralmente, si trasformano. Qui il regista lascia il suo messaggio, presentando la gente comune, bisognosa di aggredire il prossimo, ricordando che nessun infetto è un assassino, bensì si limita a mordere e contagiare, portando così tutti alla stessa “categoria”, creando una sorta di classe sociale paritaria.
È il protagonista a descrivere e incarnare una società individualista, corrotta, sporca e isolata. Il film è uno dei prodotti di genere più interessanti degli ultimi anni e anche se è stato prodotto da RaiCinema e dai Manetti bros e distribuito da 01 Distribution, ha avuto un budget veramente limitato, sfruttato fino all’ultimo euro. Il film è supportato da un soggetto e da una regia seria, che non strizza mai l’occhio al cinema americano né a quello più commerciale. La delusione più grossa è quella nel leggere critiche che invece di esaltare un prodotto artigianale come questo lo denigrano e lo ignorano. Così facendo si nega ai nuovi registi di osare e credere in un cinema nostrano, che ha davvero qualcosa da dire, che pareva dimenticato e che con veramente poco riesce a dare un linguaggio internazionale e un contenuto autoriale. Un film così non merita di fare flop al botteghino.
di Alessandro Bellagamba