“2001: Odissea nello spazio” di nuovo al cinema, l’anniversario cinematografico del 2018. Sembra ieri, Wikipedia e Google nascono e pubblicano in prima pagina giorno per giorno gli anniversari di nascite, morti, avvenimenti, mentre le edicole sfoggiano da anni libretti dagli stessi contenuti facendoci sentire per un attimo quel pizzico di importanza, traducendolo con curiosità e non cogliendone quasi mai le occasioni che potremmo guadagnarne, in quanto siamo più portati a ricordare ciò che di più vicino gli appartiene e lo coinvolge nei suoi interessi. L’appuntamento al cinema resta un’istituzione e l’anniversario va rispettato così che lo spettatore può sempre raccogliere l’occasione di sentirsi parte di un mondo in debito con la propria eredità. Finalmente dopo anni di attesa è arrivato il 2018 e “2001: Odissea nello spazio” non poteva non poteva non primeggiare al botteghino dei cinema di tutt’Italia.
Mi dovrei soffermare su ogni scena, inquadratura, parlare dei trucchi e delle curiosità, ma il fulcro di questo articolo si concentra sul potere dell’anniversario di un film come 2001 e sull’obbligo passivo del rivedere, riascoltare, ricordare e rivivere quell’impatto intimo tra Stanley Kubrick e lo spettatore.
Il viaggio è stato pazzesco, della pellicola se ne conosce ogni metro, ogni secondo, si vanno a notare tutti i dettagli e al cinema se ne scoprono di nuovi, della pellicola, come il logo della IBM sui tablet degli astronauti in viaggio per Giove o il riflesso di un operatore nella scena del monolite sulla Luna. Inevitabile la caccia all’errore nelle scene iconiche come le camminate a testa in giù o nei fotomontaggi ma ancora si resterà orgogliosamente delusi. Perfetto. L’avventura visiva è una piccolissima goccia dell’oceano di altari, manifesti, oracoli che si presentano continuamente e sfidano lo spettatore. Protagonista indiscussa è l’armonia del cosmo, e al terzo titolo di testa mi rendo conto quanto il 1968 non sia affatto una data come un’altra, bensì uno degli elementi più importanti da sottolineare.
Piccolo salto indietro, nel 1964 esce nelle sale “Dr. Strangelove”, il dr Stranamore, ed è inevitabile non notare subito i diversi anelli di congiunzione con “2001”.
I paradossi mostrati nella pellicola come il mondo messo nelle mani di singoli uomini, responsabili dell’intera vita sul pianeta, pazzi pericolosissimi, liberi di fare quello che vogliono, è un campanello di riflessione che incide non tanto con il periodo storico (piena Guerra fredda) bensì con tutta l’era della vita sulla Terra.
“L’alba dell’uomo”, l’inizio di “2001”, è un manifesto di come la violenza o addirittura il concetto stesso d’invenzione, sia così distante e pericolosa per l’uomo da essergli perfino alieno. Aliena o meno, in piena epoca di scoperte nei campi dell’elettronica, della fantascienza, l’era atomica (gli scenografi si sono ispirati a bombe atomiche e all’idrogeno per il disegno di alcune astronavi), insomma in pieno progresso tecnologico, questi viene messo in discussione, a partire dalla demolizione delle tre leggi della robotica di Asimov, in quanto l’artefice è l’uomo e l’errore non lo si può scindere per assoluto. HAL 9000 è costituito da un’intelligenza “umana” artificiale così avanzata da ritenersi esso stesso un essere vivente al punto da provare paura, rabbia, vendetta e infine risultare imperfetto (o imprevedibile).
L’uomo, alieno di molte realtà e veleno dell’armonia della natura e della vita stessa, deve compiere il suo viaggio partendo dalla “morte di Dio” con l’assimilazione della ragione, superare le “porte della percezione” di Aldus Huxley e divenire il “superuomo” di Nietzsche. È la mano dell’estraneo che ci guida senza mai presentarci il fronte ultimo dell’essenza, fondendo la ragione con l’istinto per scoprire quanto la realtà sia inerzia di materia e tempo. Peccato che caso e conseguenza facciano parte di un loop naturale infinito, dove il giusto e lo sbagliato sono la stessa faccia di diverse nature con cui l’uomo non è mai riuscito a rapportarsi, poiché ha elevato le sue certezze a mere illusioni e sfuocate coscienze di ragione e istinto, vivendo in eterno come cieco testimone di un’identità mai compresa.
Alla fine lo spettatore si scontra per forza con lo specchio di una realtà che è impossibile capire se non ci si lascia alle spalle quella scorza d’identità, ancorata ai bisogni materiali (, che non sono la fame, il riposo ecc, bensì la misura di questi con le nostre concezioni di spazio e tempo,) ovvero la nostra idea di realtà.