In concomitanza al Japanese film festival (che per l’iItalia ha avuto inizio il 26 febbraio e terminerà il 7 marzo), evento durante il quale saranno disponibili trenta film giapponesi in lingua in streaming sulla piattaforma online dedicata (link: https://watch.jff.jpf.go.jp/), SDAC Magazine inaugura una nuova rubrica, a cadenza mensile, in cui si andranno a scandagliare la poetica e lo stile di alcuni tra i più grandi registi classici e contemporanei del cinema del Sol Levante. Oggi vi parliamo di Yasujiro Ozu, uno degli autori che ha reso grande il cinema del suo paese.
Il più giapponese dei registi nipponici
Ozu diceva spesso di considerarsi alla stregua di un semplice venditore di Tofu. Per quanto a posteriori sia un’affermazione che strappa un sorriso visti i risultati raggiunti dal regista, riflette alla perfezione sia l’ordinarietà della sua vita sia il carattere essenziale del suo cinema. “Se si può parlare di umiltà della forma nel cinema di Ozu” dice lo storico Dario Tomasi “è proprio in conseguenza di questa logica del sussurro, in cui, a volte, il non detto è più importante del detto”.
Un’affermazione che in maniera straordinariamente sintetica descrive alla perfezione la matrice culturale del cinema di Ozu, radicata nella rappresentazione di modelli comportamentali e sociali giapponesi, caratterizzati da pressanti formalismi e talvolta da atteggiamenti paternalistici; ma che, lavorando per sottrazioni, acquisisce inevitabilmente anche una portata universale, affrontando temi in grado di trascendere l’identità nazionale e travalicarne i confini.
Nato e morto nello stesso giorno a distanza di sessant’anni precisi (1903-1963). A differenza dei suoi celebri colleghi Kurosawa e Mizoguchi (di cui si parlerà nei prossimi articoli), leggendo la biografia non si trova alcun evento particolarmente significativo, sebbene in alcuni film, come Figlio unico (1936) e C’era un padre (1942), appaiano in maniera evidente degli elementi autobiografici.
Appassionato di cinema americano sin dai tempi della scuola, Ozu non è mai stato uno studente modello: è noto l’aneddoto in cui si racconta che il regista avrebbe disertato l’esame d’ammissione alla Scuola Superiore Commerciale di Kobe per andare a vedere in sala The Prisoner of Zenda (1922) di Ingram. Inoltre, è sempre un film americano, Civilization (1915) di Ince, a colpirlo a tal punto da fargli decidere di diventare un regista.

Sappiamo anche che a scuola girava con una foto di Pearl White in tasca. Amava molto Ford, Lubitsch e Harold Lloyd. I suoi primi film sono ricolmi di citazioni entusiastiche al cinema americano, tuttavia persino nell’ultima parte della carriera saltano all’occhio numerosi riferimenti in tal senso – si veda per esempio il dialogo in Tarda Primavera in cui si sottolinea la somiglianza del possibile fidanzato di Setsuko Hara a Gary Cooper.
Gli anni trenta
Ozu muove i primi passi nell’ambito della commedia giapponese degli anni venti e, dopo un periodo di tirocinio alla Shōchiku (una delle più importanti case di produzione giapponesi), esordisce nel 1927 con La spada della penitenza. Il suo cinema, tuttavia, inizia davvero a formarsi negli anni trenta, quando egli si dedica alla realizzazione di shomingeki (film sulla piccola borghesia), dove affronta a più riprese il tema della famiglia in relazione alle dure condizioni di vita del periodo della crisi economica attraversata dal suo paese.
Primo esempio importante di shomingeki da prendere in considerazione è Il Coro di Tokyo (1931), splendido muto in cui il regista, attraverso una vicenda che prende il via in seguito all’ingiusto licenziamento di un padre di famiglia, ritrae in piccolo la precarietà del mondo lavorativo e delle condizioni di vita della gente comune.
Nel film si possono intravvedere, seppur in maniera abbozzata, le forme embrionali di una peculiare cifra stilistica che porterà a compimento in lavori futuri, dall’assenza di una drammaturgia in senso classico alle inquadrature dal basso: i cosiddetti “tatami shot”, le riprese effettuate all’altezza di un uomo seduto sul tatami. Il suo film muto più celebre, Sono nato, ma… (1932) prosegue essenzialmente il discorso avviato ne Il coro di Tokyo, ma si concentra sulla prospettiva dei più piccoli.

Racconta la storia di due bambini che, dopo aver visto in un filmato il loro padre umiliato dal suo capo a lavoro, danno il via ad uno sciopero della fame, destinato a cessare nel momento in cui si rendono conto che quello è semplicemente il modo in cui va la vita: ciascuno viene misurato in base al proprio status sociale. Lo sguardo infantile contribuisce in maniera chiave a far emergere tutta la disillusione e la mestizia che traspaiono da quello stile di vita.
Simbolicamente, dice la studiosa Maria Roberta Novielli, “I bambini che ne accettano la logica rappresentano l’impossibilità di modificare il corso degli eventi”. Gli altri film del periodo seguono più o meno la stessa linea tracciata da quelli citati, con una brusca interruzione nel 1937, quando il regista viene mandato a combattere in Cina. Tornato in patria nel ‘39, deve scontrarsi con la censura e le nuove restrizioni imposte dalla dittatura militare.
Una parentesi che porta alla realizzazione di due opere da una parte chiaramente influenzate dalle esigenze di regime – valori nazionalisti, spirito di sacrificio, devozione verso il sovrano – ma che dall’altra sono esemplificative della maturità formale raggiunta da Ozu: il frutto di una graduale semplificazione del lessico cinematografico, iniziata negli anni trenta, che lo porterà alla quasi totale eliminazione dei movimenti di macchina, degli obiettivi grandangolari (prediligendo il 50mm, l’ottica più simile all’occhio umano) e in generale di tutto ciò conduce ad una distorsione, o ad una semplice alterazione artificiosa dello sguardo.

Un processo di stilizzazione formale che molti critici hanno accomunato a quello di cineasti occidentali come Bresson e Dreyer. Per questa ragione, Fratelli e sorelle della famiglia Toda (1941) e C’era un padre (1942) sono due film fondamentali del regista, benché da un punto di vista narrativo possano far storcere leggermente il naso per i motivi detti sopra.
Il dopoguerra
Da qui in poi sarà una continua variazione sul tema in un gioco di ripetizioni, parallelismi e ribaltamenti cui prenderanno parte sempre gli stessi attori, talvolta in ruoli speculari: l’esempio più lampante è quello di Setsuko Hara, interprete in Tarda Primavera della figlia che non vuole separarsi dal padre vedovo, e in Tardo Autunno (1960) della madre vedova da cui la figlia non vuole separarsi; o anche Chishū Ryū che nel finale de Il gusto del sakè (1962), sebbene di per sé sia un film maggiormente incentrato sulla nostalgia della giovinezza, si ritrova davanti una vecchiaia solitaria esattamente come alla fine di Tarda Primavera o di Viaggio a Tokyo (1953).

La ricerca dell’essenziale attraverso l’eliminazione del particolare in quest’ultima fase oltrepassa il piano formale e investe quello narrativo. La rarefazione è quasi onnicomprensiva. “Ogni inquadratura è ripresa dalla stessa altezza”, dice lo studioso Paul Schrader, “ogni composizione è statica, ogni conversazione è monotona, ogni espressione blanda, ogni taglio (di montaggio) è schietto e prevedibile. Nessuna azione è intesa come dialogante con un’altra, nessun evento conduce inesorabilmente al successivo. I cardini del dramma convenzionale, l’inizio e la fine, vengono tralasciati”. La famiglia rimane il tema principe di Ozu, ma al contrario della produzione degli anni trenta qui è quasi completamente esautorata dalla sua funzione sociologica e politica.
Sembra quasi, dice Dario Tomasi, “priva di legami con il resto della società”. Ciò nonostante, si possono rintracciare sia a livello prettamente visivo (ambienti, vestiario) sia nelle variazioni caratteriali di alcuni personaggi nei medesimi ruoli, i segni dei mutamenti che intercorrono nella società e nella mentalità dei giapponesi durante la progressiva occidentalizzazione e lo sviluppo tecnologico.
In breve, la dialettica tradizione-modernità: si veda, ad esempio la richiesta ossessiva del televisore dei bambini di Buon giorno (1959) o la perdita di potere del patriarcato messa in scena attraverso la figura paterna in Fiori d’equinozio (1958). Buon giorno è probabilmente tra i film più interessanti e allo stesso tempo sottovalutati del regista. In primo luogo, poiché si colloca in maniera inequivocabile nel gioco di variazioni ivi descritto: riprende a piene mani il tema fondamentale di Sono nato, ma… e lo integra con una serie di schemi narrativi sperimentati in Inizio di primavera (1956), dove compaiono sempre i piccoli Minoru e Isamu, come la fuga da casa o lo sciopero della fame.

Si tratta di una commedia corale dai toni leggeri e scanzonati dove la dimensione infantile occupa un ruolo di primo piano. Nel gioco preferito dei bambini che consiste nello scorreggiare a comando quando gli viene premuta la fronte, ad esempio, lo studioso Donald Richie vede una scherzosa presa in giro della mania degli elettrodomestici che si stava diffondendo in Giappone. Buon Giorno inoltre si avvale (esattamente come I was born, but…) dello sguardo ingenuo dei piccoli fratellini per ironizzare sulle espressioni prive di significato che utilizzano gli adulti per comunicare tra di loro: i convenevoli, i saluti, le osservazioni convenzionali sul tempo, di cui Ozu fa largo uso in tutte le sue pellicole.
Un altro aspetto caratteristico del cinema di Ozu è l’atteggiamento di rassegnata ma serena consapevolezza e accettazione verso la transitorietà del tutto, del mondo e delle vicende umane. Si tratta di un concetto chiave dell’estetica giapponese che risponde al nome di mono no aware ed è presente a più riprese nell’opera del regista sia nell’attitudine di alcuni personaggi, come il padre di Viaggio a Tokyo o Tarda primavera, sia sotto forma di sensazione evocata nello spettatore durante la visione.
Significativamente, a rappresentare alla perfezione la ricerca stilistica di Ozu, sulla sua lapide non vi è inciso alcun nome, solo un antico ideogramma cinese, “MU”, che significa “vuoto”.
Lo stile
Come accennato, la carriera del regista è caratterizzata da una continua rifinitura e semplificazione della sintassi cinematografica. Ciò non va ad applicarsi unicamente alla scelta dell’ottica utilizzata per le riprese (il 50mm) e alla quasi totale assenza di movimenti di macchina, ma vi è tutta una serie di elementi assiduamente ripetuti che spaziano dal montaggio alla composizione dell’inquadratura.
In Ozu, ancor più che in altri autori, vi è una costante riproposizione degli stessi codici estetici in ogni pellicola: la collocazione della macchina da presa a livello del tatami, l’assenza di primissimi piani o dettagli, una particolare tecnica di ripresa delle conversazioni che, al contrario di quella accademica più convenzionale (dove tipicamente gli interlocutori vengono ripresi in maniera trasversale) alterna una serie di campi e controcampi dove il soggetto, talvolta con lo sguardo in camera, viene inquadrato in posizione frontale, rivolto verso l’obiettivo.

Un’altra particolare tecnica del regista sono i cosiddetti ‘pillow shot’, inquadrature d’intermezzo che collegano diverse scene, i cui soggetti sono elementi visivi senza apparentemente alcuna rilevanza narrativa, come treni in movimento, stanze vuote o paesaggi. Sono immagini che scandiscono e dilatano il tempo emotivo della storia: ne arrestano il flusso ma ne accentuano l’attimo. Si tratta sostanzialmente di quei tagli di montaggio che Deleuze chiamava “non-rational cut” in quanto rompono la naturale logica senso-motoria dell’azione e sovvertono le aspettative inconsce dello spettatore.
È questo particolare utilizzo dei tempi che alcuni critici accomunano, con peculiari differenze, ad autori quali i citati Bresson e Dreyer, ma anche Antonioni, Ferreri, Tarkovskij o Béla Tarr: Il ‘cinema lento’ nelle sue evoluzioni anti-narrative come formulate da Paul Schrader. Ricorrente lungo quasi tutta la carriera di Ozu è una particolare ‘tecnica’ di direzione degli attori denominata sojikei (movimento coordinato). Riconoscibile quando due o più personaggi si muovono all’unisono o mantengono la stessa postura. Se negli anni trenta viene utilizzato a scopo prevalentemente comico e talvolta grottesco, nel dopoguerra assume dei connotati più intimi e la sua esecuzione risulta meno macchinosa e innaturale.
Ad esempio in Viaggio a Tokyo l’armonia della coppia di genitori anziani viene evidenziata in più occasioni mediante il sojikei. Elemento centrale nell’estetica del regista è la cura maniacale per la composizione dell’immagine e per la disposizione degli elementi in scena, naturale contraltare dell’assenza di movimenti di macchina. L’inquadratura in Ozu è quasi una sorta di palcoscenico la cui suddivisione in piani è enfatizzata dalla costante presenza di quinte e cornici, ottenute tramite l’accentuazione delle linee orizzontali e verticali presenti nell’immagine, coerenti con la struttura delle abitazioni giapponesi del periodo (intelaiature in legno, pannelli di carta a scorrimento, ecc…).

Una ricerca spaziale che tende alla riproposizione degli stessi schermi geometrici e delle stesse proporzioni, applicando di volta in volta variazioni di forma e peso in un ambiente sempre ordinario e quotidiano. Nonostante la presenza di numerosi personaggi a schermo, Ozu evita sapientemente sovrapposizioni e squilibri, riuscendo a mantenere in ogni scena una perfetta armonia compositiva.
Ferdinando Lercari
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